MAESTRALE
…………
Una carezza disfiora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s’infrange e ancora
il cammino ripiglia
Lameggia nella chiaria
la vasta distesa, s’increspa, indi si spiana beata
e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia
vita turbata.
………..
sotto l’azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto
“ più in là” !
Da “ Ossi di seppia” di
Eugenio Montale
IL MOLO
Un cammino senza meta, tra pensieri e ricordi, tra andata e ritorno, tra cielo e mare
“Tramonto viola” era il titolo della foto apparsa sul giornale di Trieste “Il Piccolo” del 4 novembre 2017. La redazione da parecchio tempo, con una felice iniziativa, pubblicava gli scatti più belli e interessanti mandati dai lettori, su aspetti della città e dintorni o riguardanti momenti curiosi di persone e animali.
La foto di quel giorno la colpì molto, era veramente particolare per l’inquadratura e il colore, ma anche per un qualcosa di simbolico e perfino di inquietante in un’atmosfera non solo romantica.
Riprendeva il molo Audace, il grande molo prospiciente la piazza dell’Unità d’Italia.
Il taglio sbieco faceva partire la massicciata nera da sinistra quasi fino in fondo, dove il cielo e il mare creavano un unicum rosso violetto con grandi fasce arancione. Sul profilo del molo si ergevano sottili i lampioni ottocenteschi già illuminati per l’approssimarsi della sera , e si snodava una processione di persone, figure nere in controluce, che camminava verso l’indefinito orizzonte con passi da moviola bloccati dall’obiettivo in una staticità metafisica. Tutto l’andare s’interrompeva all’estremità di quella sorta di tolda navale, dove fungeva da punto di arrivo una grande bitta in bronzo con incisi sulla calotta i punti cardinali, i nomi dei venti e il volto puttiforme della bora sbuffante, a guance piene, dal quadrante tra la Stella Polare e il Nord Est.
Ritagliò la foto dal giornale e la mise in un raccoglitore pensando che, prima o poi, sarebbe venuto il momento di scrivere i pensieri che l’immagine le comunicava assieme alle memorie di un lungo periodo della sua vita, a cui il molo, la grande piazza, le rive e il golfo avevano fatto da cornice. Quel momento venne cinque mesi dopo..
Tanti anni prima, guardando fuori dalla vetrata/ finestra dell’ufficio dove lavorava, spiava
giorno dopo giorno i colori dei tramonti che si specchiavano nel golfo retrostante al molo. Per la sua posizione Trieste può vantare tramonti di una magnificenza da estremo oriente, e lei, alzando gli occhi dalle pratiche, contemplava quei quadri di pittura impressionista e come le succedeva nel segreto dei suoi pensieri, restava alla scrivania, ma partiva per un altrove.
Lavorava veloce svolgendo quanto di dovere poi, alla fine dell’orario, se ne aveva la possibilità registrava su foglietti di carta degli appunti per ricordare i colori del cielo e del mare, e talvolta faceva anche qualche rapido schizzo.
Ogni giorno, ogni mese, ogni stagione offrivano variazioni sul tema. Le amava tutte, le variazioni:
quelle sul grigio, quelle sul rosso, sul giallo, quelle del raggio verde. Qualche volta il sole affogava rapidamente nell’oro, altre restava lungamente immoto, nitido nel suo cerchio arancione, assediato dal fuoco delle sfumature.
In ufficio, nei mesi invernali, alle quattro del pomeriggio c’era la “pausa caffè”. Una collega preparava una moka grande nella stanzetta dell’archivio. L’aroma si diffondeva , era il segnale per ritrovarsi cinque minuti in amicizia, scambiandosi magari qualche informazione sul lavoro in corso.
La luce già declinava , il cielo chiudeva le palpebre e il molo si allungava, nero, sull’indaco del mare. Alcuni lampioni incominciavano ad ammiccare, riflettendosi sui masegni squadrati della massicciata. Per lei quello era un momento quasi felice, pregustava quando finalmente sarebbe potuta andare nell’atelier, che aveva preso in affitto, per dipingere: avrebbe cercato di catturare sulla tavolozza i colori che l’avevano stregata..
La stagione: l’inverno-l’ora: le quattro del pomeriggio- il sapore: l’aroma del caffè- si legavano assieme , ma si legavano anche al suo sentirsi obbligata a un lavoro che l’opprimeva, e che le impediva di lasciare la fantasia pascolare liberamente sulle tele.
Non sapeva, allora, che l’essere prigioniera nella ragnatela dei doveri e il sacrificio dei suoi giovani anni l’avrebbero maturata e dato significato alla sua pittura . Per lei quella zona della città, protesa sull’azzurrità del golfo, sarebbe diventata la rappresentazione di un paesaggio interiore come una costante “presenza” nell’immaginario dei suoi quadri.
Da qualche parte aveva letto che “ un artista è un soldato alla frontiera che lotta giorno e notte non contro i tartari ma contro le orde selvagge di una melanconia esistenziale”.
Trieste, che per consonanza si riflette in “triste”, è sempre stata una “ fortezza Bastiani” sulla frontiera di Nordest… una città in attesa. Il confine politico e ideologico, che l’ ha bloccata per tanti anni, ha lasciato una traccia quasi indelebile e l’insenatura materna del golfo sembrava e sembra rappresentare una “via di fuga” verso una libertà fisica e spirituale.
Lei, ancorata alla scrivania, sentiva di appartenere totalmente alla sua città e contemplando la linea lontana del mare sognava di prendere il volo, sul filo del vento, con la libertà di un gabbiano.
La gente sul molo continuava a passeggiare nelle ore “buone”; lei, sempre all’ancora, ne seguiva il lento andare con un incalzare di sconsolata nostalgia, qualche volta addirittura soffocante, perché “ …sfugge questo reo tempo e van con lui le torme delle cure….onde meco egli si strugge”.
Le figure le sembravano manichini, marionette che continuavano a ripetere, passo dopo passo, la medesima processione verso un non si sa cosa .Lei stessa, nella ripetitività delle giornate non si sentiva diversa da loro anzi.. . fu allora che negli schizzi apparvero personaggi mascherati , pulcinella, burattini e sbiaditi arlecchini guidati dai fili di un ignoto giostraio.
Il mondo, visto dietro le quinte delle vetrate dell’ufficio, divenne un teatro con una messa in scena di figure poste in situazioni esistenziali meditative e malinconiche. I burattini, impastoiati da fili, impersonavano i suoi pensieri e il molo divenne il palcoscenico di una realtà che assumeva sempre più i colori esausti delle fiancate legnose delle barche abbandonate, senza speranza di recupero, nello squero adiacente al Porto vecchio .Le traiettorie dei gabbiani, che tagliavano lo spazio cielo/mare, si mutarono, sulle tele, in linee prospettiche a indicare, oltre il perimetro del quadro, un punto focale lontano e irraggiungibile.
Le stagioni seguivano alle stagioni, la tazzina di caffè delle quattro diventava, solo d’estate, una bottiglietta di coca cola presa al distributore dell’atrio. Poi, a novembre di nuovo caffè, magari cambiava la marca della miscela. Variavano anche i colori che si stemperavano sul cielo/mare: in primavera vincevano i gialli rosati e il violetto che alonava lo splendore di Sirio , in estate i grigi scialbati,l’ indaco e il verde ombra dei lecci sul viale delle rive, d’autunno i colori delle foglie pennellavano i tramonti d’oriente, e d’inverno vincevano il grigio e il nero, qualche volta interrotto da sciabolate di giallo accecante.
“ … il colore dormiva intorpidito,fosco e persino nel mare che ora lasciava intravvedere il suo eterno movimento,baloccandosi con l’argento della sua superficie, il colore taceva, dormiva…”
Il colore dormiva… questa frase di Svevo rendeva ciò che voleva rappresentare nei suoi quadri:
campiture di colore distese sul lenzuolo della tela, per lasciar dialogare l’immaginazione con astrazioni allusive e rarefatte.
Solo anni più tardi, studiando la pittura americana del dopoguerra, comprese che si era avvicinata all’espressionismo astratto delle opere di Mark Rothko. Si era solo avvicinata, ma non era riuscita a raggiungere l’essenzialità del maestro.
I confini non solo geografici tra Carso e mare, la malinconica senilità sveviana, il disincanto asburgico della cultura triestina incaprettavano le sue opere nella matrice di una cultura diversa. Percepì tuttavia un’affinità con l’artista americano, il quale spiegò, in una intervista, l’intendimento del suo fare arte con una frase: ”Quelli che piangono di fronte ai miei quadri,fanno la stessa esperienza religiosa che ho fatto io mentre li dipingevo . Penso ai miei dipinti come a opere teatrali: le forme che appaiono sono gli attori sul palcoscenico. Nascono dall’esigenza di trovare un gruppo di interpreti in grado di muoversi sulla scena senza imbarazzo e di compiere gesti teatrali senza vergogna”
Le bande di colore, “personaggi” del teatro che ci ha lasciato, si stendono libere come la frontiera americana, e hanno raggiunto “terre nuove e cieli nuovi”. Ma Rothko, non poté più sopportare “le orde selvagge della malinconia” e nel 1970 decise di calare il sipario sulle sue tele e sulla sua vita.
Il primo committente di un artista è la sua stessa arte. Parafrasando ancora Svevo si potrebbe dire che non solo la malattia è una convinzione, ma anche l’arte è una convinzione e l’artista nasce con questa convinzione. Per tutta la vita cerca di soddisfare la committenza alla quale si sente chiamato, ma quando ci riesce e crede che la sua ricerca sia finita, lo sbigottimento davanti al foglio o alla tela bianca registra il vuoto. Spesso subentra la sindrome da ‘“ ultima sigaretta” di Zeno Cosini. L’artista vorrebbe smettere ma non può per non trovarsi senza più scopo , abbozzolato come un ragno nella rete del hic et nunc della monotona quotidianità e allora può succedere che la sua arte assuma la ripetitività di un clone.
Per Lucio Fontana il gesto innovativo di ribellione fu quello di tagliare il bianco della tela per aprire un pertugio sullo spazio del Nulla o del Tutto.
Nel 1970 era già da circa dieci anni dietro quella vetrata da acquario , ne sarebbe rimasta altri quindici, poi l’azienda milanese avrebbe chiuso diverse filiali tra cui anche quella di Trieste.
Lo scatolone nello studio, dove teneva gli appunti e gli scarabocchi, si era riempito. Ogni tanto, nei momenti liberi, catturava qualche idea e l’appuntare divenne un’ abitudine, non solo per quanto riguardava colori e schizzi, ma anche per annotare commenti e pensieri sui libri che leggeva di sera. Le pagine di alcuni, decisamente strapazzate, non frusciavano più come nuove, erano pagine di libri che avevano vissuto perché avevano dato ed erano stati amati.
Di quando in quando rivisitando le vecchie letture riscontrava , con un po’ di sorpresa , che quelle note le avrebbe potuto scrivere in quel momento stesso. Le domande che si poneva erano le medesime e tante erano rimaste senza risposta. Negli anni non era cambiato il suo pensiero quanto piuttosto l’intelligenza del cuore che aveva acuito “pietas” ed empatia per la complessità del vivere.
Le note, gli schizzi , i primi quadri furono e lo sono ancora una preziosa riserva da sfruttare: la invitano ad approfondire qualche particolare, che al momento opportuno diventa linfa ,germoglio, frutto per altre idee che non hanno un pertugio sullo spazio del nulla… non è ancora arrivata “all’ultima sigaretta” … anzi ha scoperto, prendendosi un po’ in giro, che non è male, qualche volta, fumare anche la pipa… magari proprio scrivendo!
Infine, sotto molti aspetti., era stata fortunata , si era guadagnata “ il pane”come tutti i fortunati che hanno un lavoro, aveva trascorso anche momenti sereni e fatto pure carriera. E alla chiusura della filiale le riuscì di aprire una piccola galleria d’arte e di dedicarsi alla pittura.
Lo studio e la galleria d’arte erano proprio dietro alla grande piazza di Trieste. Lei finalmente libera di disporre del proprio tempo, andò qualche volta sul molo. Ma quando poteva andarci ,la passeggiata sul molo non la interessò quasi più: le metteva tristezza… erano passati già tanti anni della sua vita! Adesso era da lì che guardava la vetrata buia dell’ufficio con sullo sfondo le occhiaie vuote dei magazzini del Porto vecchio. Tutto sembrava lontano come un qualcosa che, avvolto nella nebbia, perde riferimenti e contorni. Arrivava alla bitta di bronzo, ritornava indietro osservando i grigi masegni del lastricato feriti da spaccature e macchie di bitume , consunti dalla salsedine, dalla pioggia e dal vento che offrivano, a chi li sapeva guardare, una scacchiera di segni alieni.
Molte volte la realizzazione di un desiderio segna il suo esaurimento. Allora si rifugiava nell’atelier e stemperando i colori ritrovava la serenità esattamente come accadeva tanto tempo prima. Non era cambiata la sua esistenza, era cambiato solo il punto di vista della prospettiva, e con questo anche il suo sguardo interiore.
“Il tempo include la misura del tempo che avviene nell’anima: il passato non è più, ma c’è la memoria che è il presente del passato; il futuro non è ancora, ma c’è l’attesa che è il presente del futuro; il presente trapassa continuamente nel passato, ma c’è l’attenzione che è il presente del presente.”
Così sant’Agostino ha affermato la soggettività del tempo. Alla fine la soggettività del tempo sta forse semplicemente “nello scoperchiare i ricordi per scoprire la propria essenza”
Nell’archivio della memoria di quel lontano periodo si erano salvate le “pause caffè”, le chiacchiere amichevoli con i colleghi, gli schizzi con la biro, l’incanto struggente della città al tramonto con l’immagine del molo e le figure in controluce. Erano anche emerse le ore lente trascorse tra pratiche e fatture. Gli incartamenti custoditi nell’archivio dell’ufficio- alla chiusura della filiale- erano andati al macero come, in un certo senso, va al macero quasi ogni cosa e la vita stessa.
Contemplò ancora la foto del “ Piccolo” del 4 novembre. Era cambiata di nuovo la prospettiva, questa volta era cambiata anche la sua esistenza , erano trascorsi tanti anni, tante cose erano accadute, di tante aveva fatto esperienza …ora guardava il molo nella pagina del giornale spiegata sul tavolo e gli occhiali l’aiutavano nella visione .
Da lì a dodici mesi, proprio a novembre, nel mese dei santi e dei morti, si sarebbe commemorato un secolo dalla fine della Grande Guerra. L’immane tragedia, che si sarebbe ancora ripetuta con la seconda guerra mondiale, sotto diversi aspetti non avrebbe cessato di replicarsi in altre parti del mondo.
Allora la foto si riempì di un altro significato: era quasi la sintesi di quello che aveva pensato spesso guardando dal vivo attraverso la vetrata/ acquario. Non era una veduta romantica, era una metafora del destino umano: una processione ininterrotta- ombra nera di un gregge- che continua il suo migrare attraverso un biblico passaggio tra cielo e mare- mossa dai fili di una fatalità burattinaia su una scacchiera solcata da segni indecifrabili. E, in cima al molo,la rosa dei venti non fu solamente un simbolo dei quadranti e dei punti cardinali , ma le sembrò un segno metafisico, le cui punte indicavano l’ infinito “oltre” che assorbe il tempo, lo spazio, l’andata, il ritorno, il prima e il dopo di ogni vita e di ogni storia.
La rosa dei venti… con l’indice dei quadranti che evoca terre lontane l’aveva affascinata da sempre, forse proprio perché Trieste, avvolta nell’abbraccio del Carso e dell’Adriatico è una città ventosa: nel corso delle stagioni si fanno sentire le raffiche rabbiose della bora, la fredda tramontana, l’alito caldo dello scirocco e il soffiare profumato di mirto del grecale.
Il turbinare dell’aria può far volare anche la fantasia che può immaginare di quando i venti di Eolo- Borea, Zeffiro e Noto- avevano gonfiato la vela della piroga monossile di Ulisse sulle rotte del Mediterraneo o di quando gli alisei occidentali avevano spinto le caravelle di Colombo nel grande mare oceano verso il Nuovo Mondo.
Ma, in senso traslato, i venti non hanno mai cessato di alimentare l’ansia di conoscenza , di avventura, di completezza e di felicità, allora come adesso, quando, in un mondo sempre più piccolo e senza sbocchi, l”umanità confida nelle navi spaziali che mirano al mare della Tranquillità della Luna e alla vastità rossa di Marte.
La foto del Piccolo, tra ricordare e scrivere, scrivere e ricordare, le aveva fatto consumare parecchie “ultime sigarette”, in quei giorni aveva anche altri impegni e pensò di lasciare la cenere raffreddarsi nel posacenere, almeno per qualche giorno.
Non fu così, l’immagine del molo non le dava tregua, non mollava la presa, né di giorno né di notte.
Lei sapeva il perché: quello scatto le stava dicendo ancora qualcosa che non le riusciva di mettere pienamente a fuoco e ciò la inquietava.
Una notte il plenilunio inondava il cielo e il biancore illuminava la sua insonnia. Allora andò alla finestra per lasciarsi catturare dalla bellezza della luna piena e di Sirio che ne accompagnava il viaggio . Improvvisamente i singhiozzi di una civetta, appollaiata in cima a un platano, si fecero sentire, intermittenti, come un criptico segnale. Non ebbe timore, non attribuì al suo canto qualcosa di nefasto, per i greci la civetta era simbolo di Atena, la dea della sophia, e sentirla era un buon segno. L’ascoltò a lungo…
Quella visione, le fece ricordare un pensiero di Saba “Sfuma il turchino in un azzurro tutto stelle. Io siedo alla finestra e guardo. Guardo e ascolto; perché in questo è tutta la mia forza: guardare e ascoltare”.
La brezza leggera che increspava le foglie degli alberi, il pianto remoto dell’uccello notturno, le case con le finestre chiuse nel sonno, il viale deserto e la cupola immensa del cielo sembravano dare una malinconica risposta alla sensazione di solitudine e di piccolezza che sovrastava quell’angolino di mondo. Consapevole che tutta la Terra è un niente nella vastità senza fine pensò che non è assecondando i venti di terra o di mare o navigando nel cosmo che si arriva alla meta, la quale sta sempre più in là di ogni arrivo.
“…tutto è vanità” “ Il vento trae verso il Mezzodì, e poi gira verso il Settentrione; egli va sempre girando, e ritorna a’ suoi giri”.. diceva il biblico Predicatore. Ma anche se tutto è un inseguire il vento, ognuno ha la sua strada da percorrere e non è cosa sapiente bloccarsi nella bonaccia di una calma piatta, impigrire sul divano di Oblomov o distendersi su quello di Freud per trovare risposte.
Secondo antiche credenze la civetta cantava di notte perché, attraverso i sogni, inviava ai dormienti saggezza, consiglio e premonizioni. Lei l’aveva ascoltata da sveglia : la sua inquietudine restò inquieta, i suoi dubbi rimasero dubbiosi, la sua malinconia restò malinconica.
Non aveva trovato ciò che cercava, aveva guardato e ascoltato ma Atena non le aveva parlato…
Solo alla mattina comprese che, magari indirettamente, aveva avuto un messaggio. I tanti ricordi, pensieri, illazioni e rimandi, suscitati dalla foto , non erano stati inutili, non erano stati solo un rimuginare dovuto all’età, avevano, per così dire, preparato il terreno per accogliere il canto notturno che l’aveva chiamata alla finestra facendole ricordare i versi di Saba, ma anche il colore del silenzio nelle opere di Rothko e il bianco delle tele ferite di Fontana.
La risposta all’ inquietudine e alla malinconia fu di una semplicità disarmante, come solo l’arte e la profondità della poesia sa comunicare : guardare la Bellezza, ascoltare il Silenzio “in silenzio” per non romperne l’incanto e disperdere l’essenziale nel brusio dell’effimero.
Forse- c’è sempre un “forse” – prima di ritornare al consueto, la processione di gente sul molo desiderava , più o meno inconsciamente, proprio questo: ammirare i colori del cielo , ascoltare lo sciabordio del mare e, guardando la stella dei venti e la vastità dell’orizzonte, sognare nuove rotte e nuovi approdi.
Finalmente poteva completare quanto la foto le aveva rievocato: quell’andare verso l’indefinito non era solo una metafora del destino, era anche metafora della perenne ricerca di un appagamento alle aspirazioni del cuore e della mente.
Contemplare la Bellezza e ascoltarne l’eco commuove la coscienza, fa intuire che la vera meta non è una conquista ma un dono, un attimo di grazia, un momento di eternità che conforta la precarietà del vivere. Il mistero di quella notte non voleva annichilire ma piuttosto rivelare il fondamento di una speranza.
Comunque sia, sul molo si spengono altri tramonti , di nuovo si accendono i lampioni….
Si riavvolgono gli anni, le stagioni, le ore dei giorni. “…ed è subito sera”.
Franca Batich