Chi sono

Formazione

Nata a Trieste nel 1940 dove vive e lavora.

Inizia fin da giovanissima a studiare pittura seguendo gli insegnamenti dei maestri triestini Alice Psacaropulo, Giovanni Giordani e Frida de Reya, incamminandosi in seguito su un proprio originale percorso di ricerca.

Con le prime mostre in ambito universitario negli anni sessanta avvia la sua partecipazione alla vita culturale e artistica della città e della regione. Per molto tempo è stata operatrice culturale gestendo la galleria d’arte “Malcanton” ed è stata presente come gallerista e artista a numerose expò nazionali e internazionali in Austria, Germania e negli Stati Uniti.

Tecnica e contenuto delle opere

Usa oli, smalti, collages di materiali diversi (tra cui il perspex) per rappresentare paesaggi allusivi proiettati in una dimensione astratta e metafisici teatri popolati da personaggi della Commedia dell’Arte, da burattini e maschere.

Si esprime con un insieme di tonalità accese e altre più  sobrie, dal rosso intenso con vibrazioni solari – definito da Claudio Magris “rosso Batich” – a gradazioni grigie e nere, che rendono del tutto particolari le atmosfere di tanti suoi quadri.

A tale proposito si riportano alcune pagine di una intervista rilasciata da Franca Batich in merito al contenuto del suo lavoro e all’incisiva importanza che ha avuto Trieste nella sua formazione.

D. : Nel guardare i suoi quadri si sente, o meglio si intuisce, un pensiero che è costante conduttore della loro espressione. Me ne può parlare?

R. : “… Premetto da subito che – a parte gli insegnamenti e il fascino che la pittura di alcuni maestri triestini come Psacaropulo, Giordani e De Reya ha esercitato sulla mia formazione – penso di essere in qualche modo debitrice verso artisti che in età più matura ho rivisto e ristudiato. Devo, a questo proposito, menzionare: l’arte sacra di Giotto, l’impianto prospettico di Piero della Francesca, l’atmosfera metafisica di De Chirico, di Carrà e del nostro Arturo Nathan, la libertà trasgressiva di Picasso (indimenticabile una mostra che ho visitato a Palazzo Grassi a Venezia), la pittura americana del dopoguerra con Pollok e Rothko in testa (di cui ho avuto la fortuna di vedere parecchi quadri al MOMA di New York) e infine emotivamente sono stata conquistata, ancora ragazzina, da Van Gogh.

Dal punto di vista formale i miei quadri sono legati indubbiamente dalla tecnica, dai colori, dalle linee e fili che intersecano i paesaggi, i teatri e le figure. Uso una tecnica mista, mi piace comporre il quadro, svilupparlo come una scenografia. A tal fine disegno, dipingo e ritaglio ogni elemento, poi sulla tela – dipinta in un colore dominante che darà atmosfera a tutta la composizione – applico a collage i vari componenti. Amo tutti i colori e ne uso di vari tipi, oli, smalti, tempere e pastelli, ma come tonalità prediligo le terre d’ombra, tutta la gamma dei rossi, l’arancio, i grigi e le sfumature dell’indaco, uso pochissimo i gialli e i verdi che utilizzo solamente come comprimari.

I colori nei paesaggi subiscono le variazioni di luce della stagioni e delle ore del giorno, dall’alba al tramonto, alla notte; nei teatri sono sussidiari alla scena e creano atmosfera riscaldando o raffreddando i festoni e i sipari che definiscono i palchi, la ribalta o l’arena circense. Evidenzio con il colore i primi piani e talvolta – per dar loro maggior spicco – adopero un materiale di spessore come cartone, stoffa o perspex. Molto spesso li delimito anche con un’asticciola di legno in orizzontale, per dare stacco e profondità, mentre se la pongo in verticale voglio significare una “presenza” astratta che rimarca un senso di vuoto, segna un “limes” alla lontananza indefinita.

Nei teatri la riga in legno regge il tendaggio della scena o divide gli spazi dei recitanti. Spesso dal piano superiore del quadro pende un sipario di colore tonale o a contrasto per dare la sensazione della vastità del cielo. Le composizioni – allusive a misteriosi paesaggi – sono per lo più deserte, raramente sono abitate da maschere o statue appartenenti come relitti ad un antico Mediterraneo.

Mentre do libero corso al mio interesse per la figura, nei “teatri” dove personaggi interpretano ruoli esistenziali, molto spesso una porta nera o una tenda drappeggiata indicano l’uscita dalla scena.
I fili che guidano le marionette, come le linee di fuga delle opere astratte, portano oltre la tela e il perimetro del quadro. Mi associo così idealmente a un concetto spazialista che Lucio Fontana codificò con il gesto assoluto del taglio della tela, “pertugio” verso l’assoluto silenzio.

Dal punto di vista concettuale, in senso traslato e sinteticamente, nei lavori con paesaggi allusivi esprimo il pensiero che lo spirito umano – per una atavica nostalgia – è incessantemente attratto orizzontalmente verso una frontiera di spazio e tempo quasi come in un viaggio odisseico verso un “altrove”, un infinito dove per Leopardi “è dolce naufragare” e per Montale è semplicemente un “più in là” di tutte le immagini.
In questi paesaggi le campiture larghe di colore sono metafora di una frontiera che è come un campo dove si avanza, coltivando esperienze, fino all’ultimo “paletto” di confine. Confine prospettato dalla fede verso il mistero di un altro “Oltre” e di un altro “Altro”: speranza verso una terra promessa che sveli finalmente il suo tesoro nascosto a soddisfare, appunto, quella atavica nostalgia alla cui ricerca lo spirito era partito. Con questo alludo anche al mio sentire religioso che traspare in tante mie opere.
Mentre nei quadri figurati esprimo il pensiero che lo spirito è attratto interiormente in profondità dalla meditazione sul sé e sull’altro, sull’entrata e uscita di scena dal teatro esistenziale e sul suo senso.

In sintesi: l’Altro che sta dietro alle maschere si bilancia come in uno specchio con l’Altrove che sta dietro alla linea di confine nei paesaggi.

I personaggi dei miei teatri sognano di uscire dalla scena per liberarsi dei loro fili ed entrare nelle frontiere colorate dove le linee portano lontano.

“Credevo sia dolce sognare;

ma il sogno è uno specchio,

che intero mi rende,

che sa mascherare l’ultimo vero…”

 

Umberto Saba”

 

“Ed ora le parlo della mia Trieste”

“… Trieste, forse, più di altre città, è letteratura, è la sua cultura”, il paradosso vivente di un centro che sembra appartato ma che ha saputo diventare il laboratorio in cui si sono sperimentati attivamente tutti i temi centrali della crisi novecentesca così nel saggio di Angelo Ara e Claudio Magris “Trieste, un’identità di frontiera”…”

“… Ci si sentiva proprio emarginati, sia al di qua del confine, sia naturalmente al di là.
Questa “solitudine” di Trieste, che dal suo angolo guardava il mondo andare oltre, è rimasta in fondo al cuore: è il sentimento dell’alienazione, della malinconia, della domenica pomeriggio passato il sabato leopardiano, “dell’ora più bella che è al di là del muretto che racchiude un occaso scialbato”, come dice Montale.

Questa “triestinità”, dirai, allora è diffusa. Si, è diffusa, è innata nell’anima, semplicemente forse è solo nostalgia per qualcosa che c’era e ora non c’è più, o per qualcosa che non è mai esistito, o per qualcosa di inafferrabile come una scia di profuma che allude alla felicità.

Le vicende storiche la fanno emergere, gli artisti le percepiscono e la lasciano trasparire nelle loro opere per dar testimonianza anche per quelli che artisti non sono. …”

“… La ‘triestinità’ la posso sentire passeggiando per il Borgo Teresiano o a San Giacomo per incontrare i luoghi da cui è partito Mr. Bloom, l’Ulisse di Joice, o passando davanti alla libreria di Saba dove mi capita di pensare: “A Trieste, ove son tristezze molte, e bellezze di cielo e di contrada…”, o fermandomi a prendere un caffè, magari in un antico caffè dipinto da Rosignano e là nella penombra intravedo il signor Zeno che fumando “l’ultima sigaretta”, parlando tra sé e sé, bofonchia “la malattia è una convinzione e io nacqui con quella convinzione”.

Intanto il tramonto infuoca il cielo, sul davanzale di una finestra c’è un vaso con i fiori pallidi di Devetta, le statue delle dee sui cornicioni dei palazzi si stagliano nel controluce assomigliando in grazia a quelle di Mascherini e Carà.
Pensando ai quadri di Nathan, incomincio un fantastico viaggio, ma non vado verso Nord, dove giacciono su metafisiche scogliere relitti di vascelli fantasma, il vento di bora – che gonfia le vele di Perizi – mi trasporta dall’Adriatico al dipanarsi del Danubio per inseguire il mito asburgico di Magris.

All’imbrunire sul ciglione carsico limitato dal sanguigno del sommaco e da un muro di Spacal, ricordo di nuovo Saba:

“Un uomo annaffia il suo campo. Poi scende
così erta del monte una scaletta che pare, come avanza, il piede meta nel vuoto. Il mare, sterminato, sotto”

Tutto questo è “triestinità”, il cui disincanto si può esprimere anche nelle poche parole poste a commento del Santo Bevitore di Joseph Roth: “tutta la straziante dispersione della vita traspare in questa immagine di uomo, ormai tranquillamente estraneo a ogni società, visitato da brandelli di ricordi.”

Talvolta i pensieri sono come il vento, girano, girano, vanno e ritornano di nuovo…così anche per me, con altre parole, ritorno al mio discorso iniziale. Guardo i miei Pulcinelli che indagano con affettuosa malinconia il loro essere burattini, tirare i fili per liberarsi e andare al fondale del palcoscenico e sciogliere le tende di Arlecchino e scoprire che dietro ci sono frontiere di libertà, di terra e di cielo, ci sono i colori dell’alba, del mezzogiorno, del tramonto, della notte stellata che dà luce alla preghiera e al meditare della coscienza. “Salimmo su, ei primo e io secondo, tanto ch’io vidi delle cose belle che porta il Ciel, per un pertugio tondo, e quindi uscimmo a riveder le stelle…”.

Quando nel silenzio dello studio parlo con i miei quadri, essi mi dicono tutto questo, ma non so se gli altri possono sentire il loro sussurrare.”